La domanda iniziale è: come scrive l'inviato di Repubblica in Libia? La seconda è: che parametro ho io per poter giudicare un giornalista professionista in Libia ciòperquindi in una zona di guerra? Nessuno. La libertà di critica non ha come logica conseguenza che si possa dire proprio tutto. La libertà è un doveroso pericolo in verità. Posso però cercare di capire perché i nostri giornalisti non vogliano aiutarci a capire cosa succede ma solo descrivercelo. Lo descrivono fino all'orrore, come in questo articolo (stilisticamente e retoricamente bellissimo) di Mimmo Candito. In effetti (leggetelo!) ci ha disgustato, (e quella barbetta dell'imam alla fine cosa significa? Credo sia il pezzo più importante dell'articolo ma resta lì a far colore) ma una volta finito l'articolo cosa ci resta se non l'orrore? Solo che la guerra fa schifo? Non penso che mostrare la realtà dei fatti fino al dettaglio crudo e sanguinario sia in qualche modo catartico.Quello è solo schifo, repulsione. L'orrore della guerra è in un altro passo dell'articolo. Dopo i vermi e i cadaveri, dopo l'iperrealismo dei dettagli crudi che divengono quasi finti; la loro oscenità è troppo grande perché siano, in un certo senso, Reali. "La guerra crea speranze e illusioni". Questo è l'orrore della guerra.
C'è un altro articolo sulla liberazione dei giornalisti in Libia che è in effetti molto interessante, questo. I quattro giornalisti italiani parlano della loro liberazione. Nessuno che si chieda perché li abbiano liberati. Il giornalista di Avvenire attribuisce (per deformazione professionale) la sua salvezza alla Grazia Divina, presente in ogni uomo. Così i due ragazzi, di non si sa quale clan, spuntati fra la folla che li voleva linciare, diventano degli angeli: e i quattro si fidano ciecamente della spiegazione che i due danno della loro liberazione: "lo facciamo in segno di rispetto per il nome di Dio". Non sto dicendo che non possa essere vero, dico solo che in quell'articolo la verità è quella. I selvaggi a volte diventano buoni. Possiamo dubitare che in una spietata zona i guerra quattro giornalisti vengano liberati per intercessione divina? (tralasciando la domanda eccessiva e banale sul perché Dio non si sia curato del povero traduttore ma solo dei quattro italiani). Questa loro versione non presenta di per sé nessun problema: è la verità che si sono scelti (e cosa posso dire con il culo al caldo? Probabilmente mi ci sarei adeguato anche io). In fondo i Salvati, tutti i salvati quando guardano in faccia il morto devono scegliersi una verità. Non è il senso di colpa per quello che è avvenuto a formulare cause divine indipendenti. Ma è la domanda: perché io sono salvo e lui è morto? E' l'impossibilità ad accettare il caso. La fortuità di ciò che è accaduto.
Il caso, i fatti del caso e la loro interpretazione.
Il fato è il caso per eccellenza. Quale sarebbe il rapporto fra il fatto e il fato? E quale quello fra il fato e l'interpretazione del fato? Tutto questo discorso filosofeggiante nasce dalla volontà di capirci qualcosa, sempre a livello amatoriale, in questa discussione di Repubblica sul pensiero debole. Non ho ancora capito se la serie di articoli serva solo a pubblicizzare nuovi libri di filosofi che nessuno comprerebbe mai o se davvero c'è chi discute se sia ora di tornare al realismo dopo decenni di pensiero debole, di trionfo delle interpretazioni. A me queste cose ricordano la moda ciclica dei nostri tempi: dopo gli anni 80 tornano i 70! Capelli lunghi, poi capelli corti poi capelli lunghi. Operazioni nostalgia che ci ricordano che il nostro tempo è schizofrenico. Citiamo così questa canzone dei perturbazione che inquadra benissimo, meglio di qualsiasi libro, meglio di Baumann, il nostro Tempo. Per naturale conseguenza dopo le interpretazioni i fatti. L'alternanza democratica fattasi Legge Fisica di moto e pensiero. Tornando a noi.
La modernità non accetta il fato come un fatto. La modernità non accetta fati. Solo fatti, riprese reali ed ossessive di migliaia di Fatti. 24oresu24 di ciò che accade. (Sarebbe interessante capire se anche altre culture e altri tempi hanno avuto l'odio del fato). Per adesso mi viene da dire: la Cultura umana odia il fato. La cultura sopprime il fato, lo controlla, lo vuole aggredire. La cultura di per sé costruisce Fatti. Che sia attraverso la scienza, che sia attraverso un sistemo totemico, agire culturalmente è denominare il fato, circoscriverlo a fatto. Si tratta di creare un significato, un'interpretazione precisa rigida di quel fato, di quel caso. I significati che attribuiamo a ciò che succede, l'interpretazione di ciò che succede, creano i fatti. "il Cielo è azzurro" è un fatto, ma è anche un significato, ha un significato diverso per ogni sistema culturale. (Per ogni soggetto?) Non sono d'accordo con chi pensa che esistano alcuni "dati di fatto". E ancora meno con quelli che ne fanno un problema per la conoscenza. L'uomo usa districarsi fra il fato e il fatto della sua vita con la cultura. Posso dire che la cultura è il modo con cui l'uomo si è adattato all'ambiente? Ha creato nel caos un ordine, ha disposto attentamente gli oggetti della realtà.
Complichiamoci la vita.
Turchia, Istanbul. Trovi facilmente tanti bambini poveri che vendono fazzoletti, suonano clarinetti giocattolo per le strade. La loro povertà è un'interpretazione? Si lo è. La povertà è interpretata vissuta, inserita in una casella, in una disposizione precisa da ogni cultura. La povertà di per sé non significa nulla. Siamo noi a darle significato nel modo in cui la guardiamo, nel modo in cui, e questo forse è il punto, la parliamo. Certo questo significa che per una cultura che legge la povertà come una punizione divina, la povertà è in effetti giustificata. Eticamente questo ci ripugna. Allora forse questi stronzi qui sbagliano. Che lo sappiamo tutti la povertà è brutta, va eliminata! E la guerra poi? Na porcata certo. Però quando si aiutano i ribelli libici? Beh distinguiamo. Eppure il fatto è sempre quello, la guerra. E' il modo in cui la disponiamo e la parliamo che cambia il suo statuto. Se quindi i fatti sono, non solo suscettibili di interpretazioni diverse di cui nessuna Vera fino in fondo, ma addirittura interpretazioni, la realtà diventa inconoscibile. Non esistono Verità per cui anche Hitler ha ragione? Il papa lo dice spesso, nichilismo e relativismo , i mali del tempo nostro. Su Repubblica prima pagina, stesso giorno dell'articolo sulla Libia e della ripresa discussione fra sostenitori del pensiero debole e neorealisti, la spalla apre con un'intervista ad un povero studente di Cl dell'università di Milano. Il ragazzo, saccente come solo un ciellino della Statale riesce ad essere, dice: "E adesso voi relativisti come la mettete?" il giornalista prosegue: " La mettiamo cosa?" "Con Fukushima. Con Oslo. Con il crollo della borse..." Alla domanda cosa c'entrano ste quattro cose con il realtivismo il filosofo di Cl sfodera tutta la sua sicurezza teologica con sorriso beffardo: "Qui ti volevo! Come fate a cavarvela con il vostro pensiero debole (sic), il vostro scetticismo sistematico? Vi siete costretti a dubitare di tutto, e adesso avete paura di tutto". Al di là della simpatia che ispira il giornalista, con la doppia sfortuna di trovarsi al meeting di Cl e di dover parlare con un arrogante giovane ciellino, la domanda che pone il piccolo filosofo non è stupida. E' questa paura che ci costringe in maglie di interpretazione, che ci porta alla creazione di dispositivi e culture per poter reggere l'assurdità. E' questa che ci spinge a creare i fatti, a pensarli in un certo modo, che ci garantisce così la nostra adattabilità all'ambiente, ad un mondo che è sconosciuto e spaventoso. Tutti si affannano a ricostituire un padre ucciso tanto tempo fa. Non vogliono essere padri di qualcosa di nuovo, ma rifugiarsi sotto le mani di quello vecchio che conosceva così bene la Verità. I fatti sono stupidi. Sono vuoti perché di per loro vorrebbero essere significati, ma non lo sono. Non hanno significato, perché è il linguaggio a farlo. Quei morti che Mimmo Candito ci descrive non hanno significato. C'è una cerimonia studiata da Lattas, in una società della Nuova Britannia, una cerimonia di iniziazione in cui i giovani sarebbero mangiati e poi vomitati dal tambaran Varku un mostro la cui funzione è generare gli uomini. Quando i giovani sono ammessi al recinto dove sarebbe il Varku, viene loro spiegato che si tratta di una finzione! Un inganno finzionale, siamo noi uomini, dicono, che creiamo Umanità. Crescere significa essere consapevoli che il progetto di umanità, la verità, il dispositivo, che creiamo serve anche per affrontare insieme la paura, per crescere. Consapevoli che siamo in un modo ma potremmo essere diversamente come dice splendidamente Remotti qui.
Infine si ritorna alla povertà, alla guerra. Perché buttare tutto questo patrimonio di consapevolezza che popolazioni differenti da noi hanno scoperto prima di noi? La riflessione si è fermata lì, sul primo gradino, la complessità che ha apportato al pensiero occidentale il 900 non deve essere dimenticata. Chi prima di noi ha ucciso tutti i nostri padri, ha ucciso Dio. Ha lasciato a noi il compito più ingrato costruire un mondo del tutto nuovo. Il primo gradino da superare è questo, il mondo non ha verità, non ci sono Varku che ci ingoieranno, siamo noi che creiamo il mondo. Ma questo non è un ostacolo, questa è la consapevolezza da cui ripartire. come? Non chiedete troppo.
C'è un altro articolo sulla liberazione dei giornalisti in Libia che è in effetti molto interessante, questo. I quattro giornalisti italiani parlano della loro liberazione. Nessuno che si chieda perché li abbiano liberati. Il giornalista di Avvenire attribuisce (per deformazione professionale) la sua salvezza alla Grazia Divina, presente in ogni uomo. Così i due ragazzi, di non si sa quale clan, spuntati fra la folla che li voleva linciare, diventano degli angeli: e i quattro si fidano ciecamente della spiegazione che i due danno della loro liberazione: "lo facciamo in segno di rispetto per il nome di Dio". Non sto dicendo che non possa essere vero, dico solo che in quell'articolo la verità è quella. I selvaggi a volte diventano buoni. Possiamo dubitare che in una spietata zona i guerra quattro giornalisti vengano liberati per intercessione divina? (tralasciando la domanda eccessiva e banale sul perché Dio non si sia curato del povero traduttore ma solo dei quattro italiani). Questa loro versione non presenta di per sé nessun problema: è la verità che si sono scelti (e cosa posso dire con il culo al caldo? Probabilmente mi ci sarei adeguato anche io). In fondo i Salvati, tutti i salvati quando guardano in faccia il morto devono scegliersi una verità. Non è il senso di colpa per quello che è avvenuto a formulare cause divine indipendenti. Ma è la domanda: perché io sono salvo e lui è morto? E' l'impossibilità ad accettare il caso. La fortuità di ciò che è accaduto.
Il caso, i fatti del caso e la loro interpretazione.
Il fato è il caso per eccellenza. Quale sarebbe il rapporto fra il fatto e il fato? E quale quello fra il fato e l'interpretazione del fato? Tutto questo discorso filosofeggiante nasce dalla volontà di capirci qualcosa, sempre a livello amatoriale, in questa discussione di Repubblica sul pensiero debole. Non ho ancora capito se la serie di articoli serva solo a pubblicizzare nuovi libri di filosofi che nessuno comprerebbe mai o se davvero c'è chi discute se sia ora di tornare al realismo dopo decenni di pensiero debole, di trionfo delle interpretazioni. A me queste cose ricordano la moda ciclica dei nostri tempi: dopo gli anni 80 tornano i 70! Capelli lunghi, poi capelli corti poi capelli lunghi. Operazioni nostalgia che ci ricordano che il nostro tempo è schizofrenico. Citiamo così questa canzone dei perturbazione che inquadra benissimo, meglio di qualsiasi libro, meglio di Baumann, il nostro Tempo. Per naturale conseguenza dopo le interpretazioni i fatti. L'alternanza democratica fattasi Legge Fisica di moto e pensiero. Tornando a noi.
La modernità non accetta il fato come un fatto. La modernità non accetta fati. Solo fatti, riprese reali ed ossessive di migliaia di Fatti. 24oresu24 di ciò che accade. (Sarebbe interessante capire se anche altre culture e altri tempi hanno avuto l'odio del fato). Per adesso mi viene da dire: la Cultura umana odia il fato. La cultura sopprime il fato, lo controlla, lo vuole aggredire. La cultura di per sé costruisce Fatti. Che sia attraverso la scienza, che sia attraverso un sistemo totemico, agire culturalmente è denominare il fato, circoscriverlo a fatto. Si tratta di creare un significato, un'interpretazione precisa rigida di quel fato, di quel caso. I significati che attribuiamo a ciò che succede, l'interpretazione di ciò che succede, creano i fatti. "il Cielo è azzurro" è un fatto, ma è anche un significato, ha un significato diverso per ogni sistema culturale. (Per ogni soggetto?) Non sono d'accordo con chi pensa che esistano alcuni "dati di fatto". E ancora meno con quelli che ne fanno un problema per la conoscenza. L'uomo usa districarsi fra il fato e il fatto della sua vita con la cultura. Posso dire che la cultura è il modo con cui l'uomo si è adattato all'ambiente? Ha creato nel caos un ordine, ha disposto attentamente gli oggetti della realtà.
Complichiamoci la vita.
Turchia, Istanbul. Trovi facilmente tanti bambini poveri che vendono fazzoletti, suonano clarinetti giocattolo per le strade. La loro povertà è un'interpretazione? Si lo è. La povertà è interpretata vissuta, inserita in una casella, in una disposizione precisa da ogni cultura. La povertà di per sé non significa nulla. Siamo noi a darle significato nel modo in cui la guardiamo, nel modo in cui, e questo forse è il punto, la parliamo. Certo questo significa che per una cultura che legge la povertà come una punizione divina, la povertà è in effetti giustificata. Eticamente questo ci ripugna. Allora forse questi stronzi qui sbagliano. Che lo sappiamo tutti la povertà è brutta, va eliminata! E la guerra poi? Na porcata certo. Però quando si aiutano i ribelli libici? Beh distinguiamo. Eppure il fatto è sempre quello, la guerra. E' il modo in cui la disponiamo e la parliamo che cambia il suo statuto. Se quindi i fatti sono, non solo suscettibili di interpretazioni diverse di cui nessuna Vera fino in fondo, ma addirittura interpretazioni, la realtà diventa inconoscibile. Non esistono Verità per cui anche Hitler ha ragione? Il papa lo dice spesso, nichilismo e relativismo , i mali del tempo nostro. Su Repubblica prima pagina, stesso giorno dell'articolo sulla Libia e della ripresa discussione fra sostenitori del pensiero debole e neorealisti, la spalla apre con un'intervista ad un povero studente di Cl dell'università di Milano. Il ragazzo, saccente come solo un ciellino della Statale riesce ad essere, dice: "E adesso voi relativisti come la mettete?" il giornalista prosegue: " La mettiamo cosa?" "Con Fukushima. Con Oslo. Con il crollo della borse..." Alla domanda cosa c'entrano ste quattro cose con il realtivismo il filosofo di Cl sfodera tutta la sua sicurezza teologica con sorriso beffardo: "Qui ti volevo! Come fate a cavarvela con il vostro pensiero debole (sic), il vostro scetticismo sistematico? Vi siete costretti a dubitare di tutto, e adesso avete paura di tutto". Al di là della simpatia che ispira il giornalista, con la doppia sfortuna di trovarsi al meeting di Cl e di dover parlare con un arrogante giovane ciellino, la domanda che pone il piccolo filosofo non è stupida. E' questa paura che ci costringe in maglie di interpretazione, che ci porta alla creazione di dispositivi e culture per poter reggere l'assurdità. E' questa che ci spinge a creare i fatti, a pensarli in un certo modo, che ci garantisce così la nostra adattabilità all'ambiente, ad un mondo che è sconosciuto e spaventoso. Tutti si affannano a ricostituire un padre ucciso tanto tempo fa. Non vogliono essere padri di qualcosa di nuovo, ma rifugiarsi sotto le mani di quello vecchio che conosceva così bene la Verità. I fatti sono stupidi. Sono vuoti perché di per loro vorrebbero essere significati, ma non lo sono. Non hanno significato, perché è il linguaggio a farlo. Quei morti che Mimmo Candito ci descrive non hanno significato. C'è una cerimonia studiata da Lattas, in una società della Nuova Britannia, una cerimonia di iniziazione in cui i giovani sarebbero mangiati e poi vomitati dal tambaran Varku un mostro la cui funzione è generare gli uomini. Quando i giovani sono ammessi al recinto dove sarebbe il Varku, viene loro spiegato che si tratta di una finzione! Un inganno finzionale, siamo noi uomini, dicono, che creiamo Umanità. Crescere significa essere consapevoli che il progetto di umanità, la verità, il dispositivo, che creiamo serve anche per affrontare insieme la paura, per crescere. Consapevoli che siamo in un modo ma potremmo essere diversamente come dice splendidamente Remotti qui.
Infine si ritorna alla povertà, alla guerra. Perché buttare tutto questo patrimonio di consapevolezza che popolazioni differenti da noi hanno scoperto prima di noi? La riflessione si è fermata lì, sul primo gradino, la complessità che ha apportato al pensiero occidentale il 900 non deve essere dimenticata. Chi prima di noi ha ucciso tutti i nostri padri, ha ucciso Dio. Ha lasciato a noi il compito più ingrato costruire un mondo del tutto nuovo. Il primo gradino da superare è questo, il mondo non ha verità, non ci sono Varku che ci ingoieranno, siamo noi che creiamo il mondo. Ma questo non è un ostacolo, questa è la consapevolezza da cui ripartire. come? Non chiedete troppo.